Karim Forlin
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Terzo punto d’una corsa d’orientamento fittizia, abbecedario di una geografia personale.
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Lettera C, «cadastra», legame simbolico tra due postazioni, due spazi, due territori: psicologico e geografico/territoriale.
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Il fuoco, l’elemento attivo che rende possibile un passaggio, un cambiamento.
Tre passi nel deliquio
Le tre esposizioni personali - con questa – di Karim Forlin (1977, Locarno) hanno titoli programmatica-mente definiti e circoscritti: A, B e ora C. Ma tanto minimalismo non implica freddezza e distacco nel suo fare arte, tutt’altro.
Forlin ha sviluppato, soprattutto a Ginevra dove vive da anni, un percorso assolutamente personale di riflessione su forme e strumenti dell’arte di oggi. Un percorso che non attraversa solo le esposizioni che ha potuto visitare o di cui ha direttamente conosciuto la genesi, operando al Mamco come allestitore: fatto piuttosto di tappe obbligate che rimandano al suo passato – il Ticino, la sua famiglia, gli amici.
Di un percorso si può parlare anche perché rivela legami a paesaggi e territori, appunto i due in cui ha vissuto principalmente, e anche su Ginevra ha mostrato punti di vista inusitati.
Il suo lavoro parte da una ricerca sul territorio e nel territorio. Una ricerca concettuale che man mano si evolve, ma all’improvviso si blocca. Come il Principe di Homburg, in Goethe, che in mezzo alla battaglia comincia a interessarsi a tutt’altro, Forlin abbandona a un certo punto il processo di creazione per asso-ciazioni mentali ed all’esterno emergono solo alcune immagini. Sovente le stesse, talmente importanti per lui da averle fissate sul proprio corpo, in forma di tatuaggio.
In definitiva il lavoro di Karim Forlin non è particolarmente complesso, dal punto di vista concettuale. Però la crasi che volontariamente opera nel sillogismo volto a creare fa sì che gli esiti siano connotati da una discreta ambiguità ed indubbiamente posseggono una poeticità peculiare.
Nella sua seconda esposizione personale, B appunto, aveva realizzato cinque oggetti scultorei in legno, Ora uno di essi è bruciato e il suo rogo è mostrato perennemente in una delle due sale della rada. Solo grazie alla potenza proteiforme ed assieme luminosa del fuoco è possibile leggere la frase che ha apposto in arancio sul fondo reso scurissimo delle pareti: “Io? Inseguo un’immagine, nient’altro” – nota citazione del poeta Gérard De Nerval. Una frase che scompare quando il fuoco, ormai, va esaurendosi ma nelle braci cova ancora quello statement.
L’altra sala potrebbe apparire come una mera esposizione di quadretti in legno, ognuno riportante un simbolo schematico. In effetti anche questi simboli, disegnati con un pirografo-giocattolo, non sono com-plessi, ma nascondono una storia affascinante: son in realtà gli ideogrammi della “cadastra”: il codice usato anticamente per segnalare confini e natura di terreni e proprietà, al fine dell’accatastamento e della valutazione del loro valore. Un altro modo di narrare un territorio che è necessariamente mentale e meta-forico, anche se verte su suoi ricordi effettivi: quello reale è troppo arduo raccontare.
Nient’altro è possibile che trarne un’immagine – un insieme di immagini – e come un medium, mediatica-mente, emetterle, rappresentarle.